Il vicentino Manuele Albanese non nasce musicista. E, a sentir lui, non morirà musicista. Nasce piuttosto come ascoltatore seriale, collezionista compulsivo di emozioni sonore, con l’anima già scossa, sin dalla tenera età, dal rumore del mondo.
I suoi primi ricordi d’infanzia hanno la forma di due epifanie sonore: il suono di Heroes di David Bowie che esce dalla radio e la notizia dell’omicidio di John Lennon, l’8 dicembre 1980. Due lampi che segneranno in profondità la sua sensibilità musicale e umana.
Cresce con le radici ben piantate in tre grandi scuole musicali: i cantautori italiani (con Battisti e Battiato come numi tutelari), il rock angloamericano (Springsteen, Bowie), e il progressive inglese.
L’ingresso nella musica attiva avviene in età adulta, quasi per caso: un invito a cantare con degli amici diventa l’occasione per scoprire una voce e un’urgenza espressiva fin lì rimaste sopite. Nascono così le prime canzoni, rigorosamente in inglese, e le prime esibizioni live. È un’esperienza breve ma intensa, che accende la scintilla per ciò che verrà dopo.
Due incontri in particolare segnano la svolta: quello con Alan Bedin, cui si affida per lo studio del canto, e quello con Edoardo Piccolo, inizialmente contattato per lezioni di pianoforte. Ma le lezioni diventano presto dialogo creativo: Manuele porta a Edoardo le sue prime composizioni, sempre più strutturate, e da lì comincia una vera e propria fase di pre-produzione.
Da quel lavoro condiviso nascerà Biglie, l’album d’esordio. Un concept album tanto nel suono quanto nell’estetica in cui ogni brano è una “biglia” sulla sabbia, con un suo avatar, una sua traiettoria, una sua storia. L’ultimo brano scritto, quello che diventerà la title-track, arriva a dare un senso d’insieme a tutta l’opera.
Biglie è un progetto che guarda con amore agli anni ’70 ma con un’identità visiva e musicale radicata nel presente. Nostalgia, sì. Ma non revival. Un disco pop curato, quasi barocco negli arrangiamenti, intriso di malinconia col sorriso, appiccicoso come gomma e scanzonato come un pomeriggio in spiaggia.
Mentre Biglie si avviava verso il suo completamento, Manuele già iniziava a scrivere e registrare un secondo lavoro discografico, la cui uscita è prevista nel corso del 2026.
Oggi Manuele Albanese continua il suo percorso musicale fuori da ogni etichetta, mosso dallo stesso sentimento iniziale: la passione. La musica come linguaggio, come ricerca, come confessione intima. Più che un mestiere, una necessità.
Doveva chiamarsi “Educazione Sentimentale” in origine. Ma se nel romanzo di Flaubert il tema vero è il contrasto doloroso tra le nostre aspirazioni ideali e la concretezza della vita reale, nel disco di Manuele Albanese quel che esce preponderante è sì il processo attraverso cui una persona impara a proprie spese a conoscere la natura reale dei sentimenti e delle illusioni, ma il tono è sempre leggero, tra il disincantato e l’onirico, con una malinconia in qualche modo sempre consolante. E quindi “Biglie” è diventato il titolo perfetto. Le biglie, lucide e leggere, corrono sulla sabbia come sogni tra le dita di un bambino. Non sono solo un gioco: sono il piccolo universo domestico in cui, senza saperlo, impariamo l’incertezza, la competizione, il desiderio di arrivare lontano. La traiettoria della biglia, che una mano guida ma che mille imprevisti deviano, è l’immagine stessa della vita: una corsa gioiosa e disperata in cui l’obiettivo sfugge, cambia, si reinventa. Con il passare degli anni, abbandoniamo la spiaggia e le sue biglie colorate. Diventiamo adulti e smettiamo di inginocchiarci sulla sabbia, come se piegarsi a quel gioco fosse diventato inutile o ridicolo. Ma in realtà è la perdita di quella fiducia, di quel gesto semplice e pieno, a segnare il vero esilio dell’infanzia. Così anche l’amore, come una biglia lanciata nel sole, si muove seguendo una volontà nostra e non nostra, capace di slanci imprevisti e cadute rovinose. In amore, come nel gioco, non esiste controllo assoluto: esiste l’impulso, la traiettoria sognata, la sabbia sotto il pollice e il peso del destino che sfuma i confini tra volontà e caso. Le biglie della spiaggia, oggi dimenticate in qualche scatola, raccontano allora una storia più grande: quella della fiducia iniziale e della malinconia del tempo, della corsa ingenua verso la felicità e della necessità di amare senza sapere dove, come e quando si fermerà la nostra corsa.
Il disco somiglia molto al proprio autore. Non perché sia tutto realmente autobiografico (sebbene molto di vero ci sia nelle tracce) ma soprattutto perché ne ricalca lo spirito, il modo di essere. Per Manuele Albanese la musica deve essere qualcosa che si vive con il sorriso. Non che faccia ridere, sia chiaro, ma che diverta nel comporla, nel viverla intimamente. Ogni pezzo è stato composto in questo modo e con questo mood, in prevalenza al piano, oppure frutto di una scintilla nata da un riff, da un giro di basso, da un arpeggio. E da lì arrivavano i testi, insieme alla musica. Le canzoni sono sgorgate naturalmente ed in breve tempo, con un’urgenza prima sconosciuta anche all’autore. L’apporto di Edoardo Piccolo è stato fondamentale, come produttore e arrangiatore oltre che tastierista. Arrangiamenti volutamente ricchi, a richiamare i lavori della grande stagione del pop italiano degli anni ‘70 e con una particolare attenzione all’uso dei fiati, scelta fortemente voluta da Manuele.
La title track è stata l’ultima canzone scritta e registrata e per sua natura chiudeva un cerchio. La scaletta del disco è si è creata quasi da sola, perché ogni pezzo non poteva che essere preceduto e seguito da quel particolare altro pezzo. Un filo rosso che unisce gli otto brani e che porta via con sé l’ascoltatore in questi neanche trentacinque minuti di estate in super 8.
Biglie, l’album d’esordio di Manuele Albanese, torna alla sua forma più pura con una special edition in vinile pensata per chi ama il fascino analogico e la lentezza dell’ascolto. Otto canzoni come otto biglie che rotolano tra nostalgia e modernità, tra pop d’autore e malinconia solare, con arrangiamenti ricchi che richiamano la grande tradizione italiana degli anni ’70.
Le immagini danno forma alle parole e amplificano le canzoni.
Ogni video è un piccolo frammento di realtà che si trasforma in sogno — come una melodia che continua a girare nella testa, anche dopo il silenzio.
Un’estate immaginata, tra realtà e sogno. Biglie è una corsa sulla sabbia dei ricordi, dove l’amore diventa gioco e il caso disegna traiettorie imprevedibili. Una bossanova malinconica, leggera come l’infanzia che ci sfugge dalle dita.
Una risata amara travestita da canzone pop. Acido Cloridrico unisce ritmo e introspezione, leggerezza e disincanto: l’ironia di chi sa ridere anche quando qualcosa dentro brucia ancora un po’.
La musica vive davvero solo quando la suoni davanti a qualcuno che ti ascolta. Ecco dove puoi trovarmi: